"....Immobile giaceva la notte, irrigidita nelle sue forme vicine e lontane, rinchiusa in questo spazio, rinchiusa entro spazi sempre più vasti, protesa dall'immediatezza del mondo sensibile verso altre, successive immediatezze, al di là dei monti e dei mari, distesa in un fluttuare perenne fino alle irraggiungibili cupole del sogno; ma questo fluttuare che scaturiva dal cuore e si perdeva come una marea sino ai confini della cupola per ritornare nella dimora del cuore, in sé accoglieva, onda per onda, la nostalgia, dissolvendo la stessa nostalgia della nostalgia, fermando la materna cuna del suo originario principio, la materna cuna delle stelle che oscillava nel crepuscolo; e intorno alla notte guizzavano gli oscuri fulmini del basso, i chiari fulmini dell'alto, dividendola in luce e tenebre, in nerezza e biancore, due colori la nube, due forme l'origine, afosa, soffocante, senza suono, senza spazio, senza tempo — oh, spalancato antro del didentro e del di fuori, oh, grande migrare della terra! — cosi si fendeva la notte e si schiantava il sonno dell'essere; travolti il crepuscolo e la poesia, travolto il loro regno, infrante le pareti dell'eco del sogno, e derisa dalle mute voci del ricordo, gravata dalla colpa e infranta nelle sue speranze, sommersa dalla rapina dei flutti, si inabissava la vita, si inabissava con la sua troppo grande attesa, nel mero nulla. Era ormai troppo tardi, c'era ancor solo la fuga, la nave era pronta, l'ancora era stata salpata; era troppo tardi.
Egli attendeva ancora, attendeva che si annunciasse ancora una volta la notte, che gli sussurrasse parole ultime, parole di conforto, che ancora una volta ridestasse in lui con il suo bisbiglio la nostalgia. A stento si poteva ancora chiamare speranza, ma piuttosto speranza della speranza, a stento si poteva chiamare fuga dinanzi all'eterno, ma piuttosto fuga dinanzi alla fuga. Non c'era più tempo o desiderio o speranza, né per la vita né per la morte; non c'era più notte. Né c'era più un'attesa, forse impazienza che attendeva impazienza."
( da Herman Broch, La morte di Virgilio, 1958 )
Egli attendeva ancora, attendeva che si annunciasse ancora una volta la notte, che gli sussurrasse parole ultime, parole di conforto, che ancora una volta ridestasse in lui con il suo bisbiglio la nostalgia. A stento si poteva ancora chiamare speranza, ma piuttosto speranza della speranza, a stento si poteva chiamare fuga dinanzi all'eterno, ma piuttosto fuga dinanzi alla fuga. Non c'era più tempo o desiderio o speranza, né per la vita né per la morte; non c'era più notte. Né c'era più un'attesa, forse impazienza che attendeva impazienza."
( da Herman Broch, La morte di Virgilio, 1958 )
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